Gli antichi rimedi

Le malattie si curavano in casa senza l’ausilio del medico

Tante cose potevano fare la differenza tra un bambino ed un altro a Raggiolo, sebbene non esistessero differenze troppo accentuate tra famiglia e famiglia dato che in ogni casa l’economia era improntata ad una necessaria parsimonia ed a una decorosa scarsità di mezzi. Tuttavia, se il nostro occhio indiscreto potesse sbirciare per un attimo il passato, in una mattina di giorno feriale tra le sette e le otto, vedrebbe, tra i ragazzi che vanno a scuola, un particolare che li distingue l’uno dall’altro: la cartella. Sembra una cosa insignificante ma chi porta in mano un quaderno con la copertina nera col bordo rosso e niente altro perché il lapis è nascosto in tasca, si distingue da chi ha per cartella due asticelle di legno tenute strette da una cinghia e da chi (caso raro) ha addirittura una cartella di pelle che tradisce il suo fortuito arrivo da un paese lontano a Raggiolo, come un uccello deviato dalla tempesta. Entriamo a scuola con i ragazzi, nel tepore della stufa già accesa e che sarà alimentata, per tutto il tempo di permanenza degli alunni, dai pezzi di legno che ognuno di loro ha portato e che formano una piccola catasta in un angolo. Guardiamoli scrivere con le mani piene di “geloni”, altra caratteristica che univa tutta la popolazione in un comune bisogno di grattarsi quando il calore della stufa, dopo l’”avviatura”, li faceva arrossare e gonfiare. All’ora di pranzo i più fortunati tornavano a casa ma per gli altri c’era, per scaldare lo stomaco e la compagnia, la minestra di pane preparata dalla cuoca Amalia Brandi preceduta da una cucchiaiata di olio di fegato di merluzzo che aveva il compito di sostituire le proteine della carne. Una mela o una pera chiudevano il pranzo.

Ma lasciamo la scuola dove la maestra faceva la sua bella fatica a far studiare i ragazzi che si riunivano in classi numerosissime e torniamo alle case dove si trovavano le donne e i “malati”, visto che tutti gli altri erano a lavorare. Una volta a Raggiolo ci si ammalava raramente: in genere si moriva, sempre però con grande senso della misura tipico della nostra gente di montagna che, quando aveva un congiunto in fin di vita diceva soltanto “sta poco bene”. Si moriva spesso di polmonite, d’infezione e di parto. Per tutte le altre malattie che venivano considerate cose fastidiose ma non serie, si ricorreva ai rimedi tramandati di madre in figlia o, più raramente, di padre in figlio. Si curavano i reumatismi con il testo della pentola di coccio scaldato al calore del fuoco e avvolto in un panno di lana. E’ per questo che la massaia ne aveva una cura particolare dato che serviva a due scopi: quello di coprire la pentola mantenendo un calore quasi da forno e quello terapeutico. Infatti, un’antica ninna nanna, tipica del Casentino, diceva: “Babbo, babbo torna presto, il cittino ha rotto il testo, e l’ha rotto nel canto del fuoco, babbo babbo pena poco”. Era evidentemente un guaio grosso poiché, per riaverlo, sarebbe stato necessario riacquistare una nuova pentola. Saltando intorno a colui che era stato colpito dal “fuoco di Sant’Antonio” e recitando giaculatorie, si spalmava la parte ammalata di una pomata scura di cui non può essere riferita la ricetta poiché era oltremodo segreta. Con le foglie più larghe della vetriola si facevano risarcire le “galle” dietro i calcagni sbucciati dalle scarpe di vacchetta troppo rigide. Un bell’impasto senapato poteva provocare un principio di ustione, ma era un ottimo rimedio per la bronchite. Per i geloni si trovava un notevole beneficio immergendo le mani nell’acqua ancora calda dov’era stata bollita la verdura. Per chi aveva avuto uno spavento traumatizzante c’era “l’erba della paura” nella cui acqua l’interessanto veniva lavato per più giorni finché questa, da rannosa, non fosse diventata chiara. Un disturbo che colpiva tutti gli adulti indistintamente era costituito dai calli ai piedi. Per quanto riguardava le mani il problema non esisteva perché dolevano di meno ed erano sinonimo di lavoratore. Caso mai erano le scoppiature indrudelite dal gelo dell’inverno a provocare un dolore bruciante. Ma i calli ai piedi torturavano chi li aveva e richiedevano cure costanti. Fin quando nel dopoguerra non si diffuse l’uso del callifugo dalla dubbia efficacia, si usò, come sistema di cura, la prevenzione che consisteva in questo: si tenevano i piedi a mollo in acqua calda saponata con lisciva fino a quando la cute non si era ammorbidita e aveva preso un vago colore chiaro, quindi si passava alla “strofinatura” cioè alla strusciatura costante e ritmata sulla pietra di un muro o di un gradino lisciato dall’uso. Per il mal di denti, quello vero, c’era un rimedio la cui efficacia non è mai venuta meno: l’estrazione. Se il dente presentava un aspetto poco rassicurante, non veniva estirpato da un familiare esperto, ma dal medico che arrivava in paese sul calesse di un paesano disponibile. Il dottore poneva rimedio a tutti i mali ma, se il caso si presentava particolarmente grave, l’ammalato veniva mandato all’ospedale di Bibbiena. La fetta di patata umida e ricca di amido si pensava dovesse assorbire l’infiammazione ed è per questo che si ricopriva con numerose fette la guancia gonfia, dalla parte dove il dente era malato; altrettante se ne adagiavano sulle gambe con le vene varicose aperte. Fra tutte però, la cura più diffusa (se non altro perché era la più economica) e nota a tanti Raggiolatti era quella per le emorroidi: tre castagne belle lustre tenute fisse in tasca bastavano teoricamente a provare sollievo ma, se questo non funzionava, si aggiungeva una prolungata immersione della zona interessata in un infuso di “coccole” di ginepro.

Lasciamo da parte l’ironia e riflettiamo su queste conoscenze empiriche tanto importanti in un’epoca in cui il medico veniva chiamato solo in casi estremi. A parte il sollievo psicologico che provava l’ammalato nel sapersi oggetto di interessamento e di cure che potevano avere un “effetto placebo”, alcune erbe avevano effettivamente capacità antisettiche e curative in genere. Non si può disconoscere che Raggiolo è collocato in un habitat ideale anche per lo sviluppo di piante medicinale. Nelle nostre zone di montagna, presso pascoli e tra le macchie, per esempio, il pungente ginepro si presenta con l’aspetto di un arbusto/cespuglio strisciante e sempreverde. Si tratta di una pianta dionica, i cui frutti chiamati galbule (bacche) sono di colore verde prima della maturazione, che dura da uno a due anni circa; passato tale periodo le “coccole” assumono, generalmente in autunno, un bel colore nero-azzurro. Le foglie sono rigide ed aghiformi, disposte in mazzetti di tre unità lungo il ramo, e alla loro ascella crescono i fiori femminili di colore verde chiaro; il ginepro maschile ha i fiori gialli. Una volta a Raggiolo si praticava la raccolta delle “coccole” in autunno. Le galbule venivano prima sistemate nelle robuste balle e poi vendute ai vari commercianti del Casentino a scopo farmaceutico. Infatti le galbule danno, per distillazione, un olio etereo usato nella fabbricazione dei liquori (gin e simili). Inoltre le coccole hanno considerevoli proprietà medicamentose: diuretiche, digestive, carminative, disinfettanti. Le piante vanno trattate con rispetto, né se ne può fare un uso indiscriminato poiché le loro qualità determinano un potere che può essere blando o accentuato. E’ buona norma però che anche nell’uso delle piante medicinali si seguano le indicazioni di un medico o di un erborista.